La lentezza. E’ da un po’ che ci penso e sicuramente per me è stata la parola di questo periodo. Non credo di essere l’unica. Se escludiamo tutti quei santi (perché davvero, non c’è altra definizione) che lavorano in ospedale, tutti, chi più e chi meno, siamo stati costretti a premere pausa, a fermarci, a rallentare. E’ stato un po’ destabilizzante, no? L’abitudine a correre costantemente, diciamocelo, anche quando non ce n’è assolutamente bisogno, è talmente insita in noi, che alla fine, seguire un ritmo un po’ più “naturale” non sembra nemmeno più così naturale.
Mi sono messa alla ricerca, studi dimostrano che il nostro cervello è un organo lento, non siamo programmati per essere veloci, altrimenti rischiamo sul serio di non connettere mai in profondità con nulla, né con noi stessi, né con chi ci sta attorno. Sepùlveda addirittura parlava della lentezza come “una nuova forma di resistenza in un mondo dove tutto è troppo veloce e dove il potere più grande è quello di decidere che cosa fare del proprio tempo”. Potente, eh? Addirittura esiste la Giornata Mondiale della Lentezza, ed è stata proprio poco fa, il 13 maggio!
Il fatto è che viviamo in una realtà in cui vince chi è più veloce e al contrario, andare lentamente è visto come un difetto, una perdita di tempo, senza renderci conto che invece è proprio l’affannarsi a rendere più facile il cadere nell’errore. Entriamo quindi nel discorso ampissimo del multitasking. Quanto se ne parla, eh? Quanto viene osannato, eh? Io in primis, l’ho fatto per taaaaaanto tempo! Finchè non ho realizzato poi che non è proprio così, fare più cose nello stesso momento non ci rende più produttivi, proprio no. Sottopone il nostro cervello ad uno stress maggiore e uno stress maggiore non fa altro che aumentare la possibilità di commettere errori e non posso certo negare che sia così, anzi!
Questi ritmi un po’ più lenti mi hanno fatto apprezzare un sacco di cose che prima davo per scontato o a cui non badavo più di tanto. Una su tutte, passeggiare senza podcast e senza musica – e adesso sembrerò molto figlia dei fiori – ascoltando solo il rumore del vento tra gli alberi (lo sapete bene voi che mi seguite su Instagram, eh?). Ho apprezzato moltissimo tutti i pranzi e cene in famiglia, senza la tv in sottofondo, senza cellulari in mano, senza avere sempre qualcos’altro da fare poi, senza dover correre da qualche parte. Ho apprezzato leggere un libro per due ore di seguito, senza sentirmi in colpa perché non stavo facendo niente di “produttivo”. Ho apprezzato il RIMANERE ed è una cosa che voglio portare con me anche dopo questo periodo. Ho apprezzato sedermi e scrivere tutto quello che mi passava per la testa e ho apprezzato prendermi cura di me, farmi quella maschera al viso o quell’automassaggio che non ho mai il tempo di provare.
Il rimanere, l’essere presenti, sono concetti di cui si parla moltissimo in questo periodo in cui finalmente si sta in parte rompendo il tabù del essere aperti sulla nostra salute, non solo fisica, ma anche mentale. Forse proprio perché i ritmi sono appunto sempre più veloci e arriva un punto in cui reggerli è davvero, davvero difficile e iniziamo a risentirne, sia fisicamente, che mentalmente. C’è un libro molto bello a riguardo, Il Miracolo della Presenza Mentale di Thich Nhat Hanh, in cui si parla di come “il segreto” per una vita più serena stia proprio nell’apprezzare ogni singolo istante e rimanere presenti. Quindi se siamo in fila per la spesa (cosa molto probabile di questi tempi), non pensiamo a dove dovremmo andare, cos’altro potremmo fare e così via. E questo si adatta a moltissime altre situazioni: fare una cosa alla volta, farla piano e farla bene.
Questo il mio elogio alla lentezza, quello che voglio portare con me anche una volta in cui, inevitabilmente, torneremo nel vortice di prima che, lo sappiamo, sarà diverso, ma uguale. Sta a noi scegliere alla fine, no? Vogliamo essere diversi? Cosa vogliamo portare con noi?